“Se ci ammaliamo noi, i malati non potranno essere curati e verranno lasciati morire”

Sul tavolo ci sono almeno dieci mascherine ammassate una vicina all’altra. Sembra il luogo in cui vengono raccolte prima di essere gettate, e invece sono lì in attesa di essere riutilizzate. Il tavolo è al centro di un reparto con decine di pazienti infetti da coronavirus in uno dei poli Covid istituiti dalla Regione Lazio. Non possiamo dire dove per proteggere la fonte che ci ha mostrato la fotografia. Quel che conta, in fondo, è ciò che quello scatto racconta: ovvero che medici e infermieri sono costretti a conservare i Dispositivi di protezione individuale e a riutilizzarli, nonostante siano teoricamente pensati per essere monouso.

Le mascherine sono ormai merce preziosa e la Protezione Civile fatica a reperire sul mercato i 90 milioni di pezzi al mese di fabbisogno nazionale. A farne le spese sono i sanitari, i più esposti, che si trovano costretti a fare economica. “A noi viene consegnata una sola mascherina FFP2 al giorno”, ci racconta Marianna, nome di fantasia di una infermiera nella Capitale. “Le teniamo indosso il più possibile, anche tre ore di fila. E quando dobbiamo togliercela, cerchiamo di conservarla per poterla riusare. Alcuni la tengono in tasca, altri la appoggiano su quel tavolo. Io la infilo in un contenitore, avvolta in un panno imbevuto di disinfettante. Ma è impossibile non contaminarla”.

Quella del riciclo delle mascherine è una pratica ormai diffusa in molte zone d’Italia. Ce lo confermano i sindacati degli infermieri di Lazio, Toscana, Lombardia e Veneto. Sebbene nessuno lo metta per iscritto, sono le aziende sanitarie a chiedere di tirare la cinghia. “Alcuni ospedali – spiega Donato Cosi, coordinatore lombardo del NurSind – consegnano ogni turno un solo kit di protezione per ogni operatore, che è così costretto a fare una scelta: o lo indossa tutto il giorno, senza poter né bere né andare in bagno; oppure deve riutilizzarlo. Col rischio di auto-infettarsi”.

Quando nei giorni scorsi si parlava della possibilità di disinfettare i Dpi par allungarne la vita, Paolo D’Ancona, epidemiologo dell’Iss, disse chiaramente che “questi dispositivi sono, per certificazione, prodotti monouso”. Il “togli e metti” può essere deleterio. In fondo basta sfiorare la mascherina con le mani durante la svestizione per rischiare di infettarla. Dovrebbe invece essere subito cestinata dopo il primo utilizzo. E se costretti a indossarla a lungo, non bisognerebbe comunque superare il limite delle 4 ore. Perché allora gli ospedali le riciclano? Perché gli infermieri ci respirano dentro anche per 8-10 ore al giorno? E perché, come racconta Stefano Barone, c’è pure chi è costretto ad affrontare il doppio turno con la stessa mascherina?

L’obiettivo dichiarato è quello di ridurne il consumo e prevenire così la loro carenza. “Da ieri per prelevare le mascherine di emergenza dobbiamo firmare dei moduli, come se prendessimo stupefacenti dall’armadietto”, racconta Marianna. C’è grossa penuria, inutile girarci attorno. Basti pensare che, secondo le nuove indicazioni dell’Iss, i sanitari che entrano in contatto con un paziente infetto, ma che non produce aerosol (cioè, in sostanza, non tossisce), non hanno più “diritto” alle filtranti FFP2 o FFP3. Ma solo a quelle chirurgiche, di cui c’è maggiore disponibilità. “Vogliamo essere chiari – dice però Andrea Bottega, segretario nazionale del NurSind – le mascherine chirurgiche non sono classificate come Dispositivi di sicurezza”. Un mese fa, in effetti, gli italiani che le indossavano se lo sentivano dire spesso: non servono a evitare il contagio, ma solo a non diffondere il virus. Perché allora adesso l’Oms le fa usare agli infermieri?

Logica vorrebbe che, per chi lavora in ospedale, si applicasse il principio della “massima prudenza”. Ovvero garantire loro almeno le FFP2 e sottoporli tutti a tampone, evitando così di trasformarli a loro volta in veicolo di contagio. “Ormai i nuovi pazienti Covid sono persone che erano già ricoverate in ospedale anche da 30 giorni”, dice Barone. Questo significa solo due cose: che “gli untori siamo diventati noi operatori” (i positivi sono già oltre 6mila); e che così “il problema non si risolverà mai”. Anzi. Bottega è tranchant: “Se si ammalano troppi sanitari crollerà l’argine, i malati non potranno essere curati e verranno lasciati morire”.

Redazione

Fonte il tempo

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Alfio Alfredo Stiro nasce in Sicilia a Catania il 22/01/1970, consegue la laurea in infermieristica presso la facoltà di Medicina e Chirurgia di Catania e successivamente il Master in Management delle Professioni Sanitarie. Master in osteopatia posturale presso l'universita di Pisa dipartimento di endocrinologia e metabolismo,ortopedia e traumatologia,medicina del lavoro. E scuola di osteopatia belga, Belso.ha frequentato numerosi corsi sull'emergenza, in servizio presso l’U.O. di Pronto soccorso e Ps pediatrico. Azienda Cannizzaro per l'emergenza di catania.

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