In definitiva secondo il Ministero del Lavoro, al termine della prestazione lavorativa resa in regime di reperibilità, non si dovrà riconoscere un altro periodo completo di riposo, bensì un numero di ore che, sommate a quelle fruite precedentemente alla chiamata, consentano il completamento delle undici ore di riposo complessivo. Bisognerebbe però chiedersi se la deroga alla continuità e consecutività del riposo minimo con i regimi di reperibilità corrisponda allo spirito della direttiva europea. In una recente sentenza della Corte di giustizia europea (C189/14 del 23 dicembre 2015) viene ribadita l’importanza del riposo adeguato che deve essere regolare, lungo e continuo e non condizionato da ritmi irregolari di lavoro (punto 9 della sentenza) nonché il valore della continuità e della consecutività del riposo minimo (punti 4 e 48 della sentenza).
Il riposo interrotto dalla reperibilità corrisponde a queste definizioni?La previsione appare lontano dalle premesse della direttiva europea 2003/88/Ce, che contiene concetti fondamentali e considerati irrinunciabili nelle sentenze della Corte di giustizia:
Articolo 2, punto 9 – “Il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano la organizzazione del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute a breve o a lungo termine”.
La questione è molto spinosa e di non facile soluzione e sarebbe auspicabile uno specifico pronunciamento della Corte di giustizia europea relativamente alle problematiche della reperibilità “attiva” e dei meccanismi di compensazione del mancato riposo, in particolare quando ne sia lesa la consecutività. E’ evidente che per risolvere il complesso dei problemi legati alla reperibilità, la via più breve è rappresentata dalla contrattazione collettiva. A mio parere, si potrebbero introdurre alcuni elementi di tutela. Innanzitutto, non si dovrebbe prevedere una reperibilità per il professionista dopo un servizio di 12 ore continuative (in genere di guardia).
Poi, prendendo a riferimento la definizione di lavoro notturno del CCNL integrativo 10 febbraio 2004, articolo 7, e quella di periodo notturno e lavoratore notturno contenuta nel D.lgs. 66/2003, nel caso il professionista superi le tre ore di servizio nel periodo 22,00-6,00 (anche 23,00 – 07,00 o 24,00 – 08,00), comprendendo anche il tempo di viaggio, si dovrebbe assegnare un turno di riposo completo. Solo in caso di chiamate brevi potrebbe essere sufficiente garantire, ove necessario, un numero di ore compensative del mancato riposo poste immediatamente dopo il periodo di reperibilità. Sarebbe, quindi, opportuno non inserire nei turni di servizio del mattino successivo il personale che abbia effettuato la reperibilità notturna. E’ evidente che in mancanza di un accordo soddisfacente con la parte datoriale, l’unica via rimarrebbe un pronunciamento specifico della Corte di giustizia europea sulla possibilità di frammentare il riposo durante regimi di reperibilità e sugli eventuali meccanismi di compensazione.
Il tempo massimo di lavoro giornaliero.
L’articolo 36, comma 2, della Costituzione prevede che “La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge’’. Secondo interpretazioni esistenti in dottrina, il D.Lgs. 66/2003 realizzerebbe la disposizione costituzionale con una tecnicaa contrariis. L’articolo 7 individua in 11 ore il riposo minimo continuativo tra due turni di lavoro, mentre l’articolo 8 stabilisce una pausa minima di 10 minuti dopo 6 ore di lavoro. Dal combinato disposto deriva l’individuazione della durata massima della prestazione lavorativa giornaliera in 12 ore e 50 minuti.
Le finalità delle disposizioni sono diverse. L’articolo 7 del D.Lgs 66/2003 individua un limite “distanziale” di 11 ore tra una prestazione e l’altra, svolte anche in due diverse giornate, per evitare che una eccessiva vicinanza degli impegni lavorativi impedisca al prestatore un adeguato recupero delle energie psico-fisiche. L’articolo 36 della Costituzione intende evitare che un eccessivo prolungamento dell’orario di lavoro nella singola giornata (dalle ore 0.00 alle ore 24.00) sia dannoso per la salute del prestatore.
Il limite appare inidoneo sotto il profilo quantitativo a soddisfare le finalità di tutela della salute del lavoratoreperseguite dagli artt. 32 e 36 comma 2 della Costituzione, ma anche a garantire una adeguata sicurezza delle cure alla luce di quanto disposto dalla Legge di stabilità 2016 (articolo 1, comma 538) per cui questa è diventata parte costitutiva del diritto alla salute dei cittadini, individuando gli indirizzi organizzativi generali del cosiddetto “risk management”.
Infatti, 12,50 ore di lavoro die proiettati su una settimana diventano una possibilità di ben 77 ore lavorative. Una dimensione temporale del lavoro che qualcuno ha definito “apocalittica”. Tale limite, inoltre, non ha valore assoluto ed intangibile in quanto si prevedono deroghe in merito alla fruizione del riposo giornaliero ad opera della contrattazione collettiva (art. 17, co. 1) ovvero attraverso Decreto Ministeriale (art. 17, co. 2).
Ne deriva che ogni deroga convenzionale o introdotta con D.M. alla durata minima del riposo consecutivo giornaliero su un arco mobile di 24 ore inciderà in senso espansivo anche sul tetto giornaliero delle 12,50 ore e potenzialmente su quello settimanale di 77 ore.
A ben guardare, almeno per Dirigenti medici,infermieri e sanitaria, il problema non consiste nella possibilità di programmare singoli turni diurni di lavoro di 12 ore. Il CCNL già ora prevede una articolazione flessibile dell’orario di lavoro per far fronte alle esigenze della struttura (articolo 14, comma 1, del CCNL 2002/2005) e la legittimità ad effettuare turni notturni di 12 ore è contemplata dall’articolo 7 del CCNL del 10 febbraio 2004. Il problema maggiore, a mio parere, è quello del tempo di lavoro massimo settimanale. Inoltre, dal punto di vista ergonomico è la ripetizione ravvicinata di turni di servizio prolungati che ha maggiori influssi negativi sul recupero delle capacità psico-fisiche del lavoratore.
Possiamo aspettare la conclusione di un lunghissimo iter giudiziario o una pronuncia della Corte Costituzionale sul tempo massimo di lavoro giornaliero? Evidentemente no. Ancora una volta l’unica via disponibile in tempi brevi è quella contrattuale. Limitando i turni di 12 ore al lavoro notturno e alla gestione dei servizi di guardia, vietando turni prolungati ravvicinati nonché ponendo un limite intangibile all’orario massimo settimanale comprensivo dello straordinario (tra 50 e 60 ore?).
Per rispondere alle garbate osservazioni di Luca Benci, dico che appare curioso utilizzare un metro strettamente giuridico per valutare i complessi intrecci tra riposo e reperibilità e i riferimenti costituzionali relativi al tempo massimo di lavoro giornaliero per poi abbandonarlo quando si affronta il rapporto tra orario di lavoro e libera professione, adottando un punto di vista più politico-filosofico. Un ispettore della Direzione territoriale del Lavoro, stante la posizione del Ministero del Lavoro appena riportata, non potrà mai calcolare una attività autonoma e privata ai fini dell’attuazione dell’articolo 7 in quanto si esclude l’applicabilità del D.lgs. 66/2003 in “alvei diversi da quelli della subordinazione” (Direzione interregionale del Lavoro di Milano, circolare 8 marzo 2016).
Ma non voglio sfuggire al ragionamento di Luca Benci in merito all’opportunità che anche le ore svolte in libera professione intramoenia vengano considerate ai fini del riposo. Per comprenderne la reale portata, bisogna però partire da dati concreti come quelli riportati nella “Relazione annuale sullo stato di attuazione dell’attività libero professionale”. Nel 2013 i medici ospedalieri che effettivamente svolgevano la libera professione erano circa 55.000 su un totale di 108.000. Il loro guadagno medio nell’anno è stato di circa 17.000 €.
Il tempo assorbito per raggiungere questo fatturato si può facilmente calcolare, valutando che su una tariffa media di 120 € la quota destinata al professionista è di circa 80 € e stimando un tempo medio di visita intorno a 45 minuti. Considerando questi parametri, le ore assorbite sono circa 160 per anno. Ben al di sotto delle 460 ore annuali che secondo la normativa vigente (D.Lgs. 66/2003, articolo 4) è possibile svolgere in eccesso rispetto alle ore contrattuali (10 ore settimanali x 46 settimane all’anno, escludendo 6 settimane di ferie).
I medici che superano nell’anno 50.000 € di incasso e, in ipotesi, il limite teorico di 460 ore sono circa il 10% di coloro che svolgono la libera professione intramoenia, quindi circa 5.500 (indagine Anaao). Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di direttori di struttura complessa per i quali, non effettuando turni di servizio notturni, non si pone il problema dei riposi ma, semmai, quello relativo al limite di tempo massimo di lavoro settimanale.
Bisognerebbe, però, valutare che in questo segmento di professionisti in genere le tariffe delle visite sono più alte ed il fatturato indicato si raggiunge impiegando meno ore. Insomma, stiamo parlando di un fenomeno certamente marginale su cui può essere avviata una discussione. Non possiamo accettare, in ogni caso, imposizioni così pervasive da interferire con le disposizioni legislative e con scelte che devono rimanere nell’autonomia del professionista.
L’intenzione di far rientrare le ore di libera professione nel conteggio dell’orario di lavoro ai fini dell’applicazione della direttiva europea sui riposi propugnata da alcune Regioni appare un’arma spuntata, basandosi più su presupposti politico-demagogici che giuridici. Non è brandendo certe armi con intenti ricattatori che si potrà arrivare ad un accordo su un tema delicato come quello del “riposo europeo”.
In un eventuale scontro giuridico le Regioni sono perdenti in partenza e le Aziende sanitarie rischiano di pagare pesanti multe e/o indennizzi. I tecnici regionali più avveduti questo lo sanno. Ai contratti di lavoro nazionali è demandato il compito importante di trovare una equilibrata applicazione ad una normativa introdotta in Europa nel lontano 1993 e ancora largamente disapplicata in Italia.
Carlo Palermo
Vice Segretario Nazionale Vicario Anaao Assomed
Fonte Quotidiano sanita.it