A ciascuno il proprio livello di efficienza Più di 15 anni sono ormai trascorsi da quando, con la legge 42/1999, il nostro paese ha formalmente ricono-sciuto il lungo e impegnativo cammi-no compiuto dagli infermieri italiani per qualificare l’assistenza infermie-ristica e definirne la struttura profes-sionale coerentemente con i criteri e i paradigmi scientifici comunemente utilizzati in ambito europeo e inter-nazionale. Il cambiamento, da più parti definito profondo e significativo, ha impegna-to l’intera compagine professionale che ha trovato costante motivazione nell’obiettivo, coralmente persegui-to, di delineare il proprio contributo nei processi di cura e assistenza e uno specifico ruolo all’interno del sistema salute. La riflessione e l’approfondimen-to professionale si sono sviluppati, da una parte nella definizione delle migliori modalità per garantire una qualificata collaborazione agli altri professionisti sanitari impegnati nelle équipe assistenziali (… K
“l’infermiere garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostiche e te-rapeutiche” – art. 1, comma 3 punto d) del Dm 739/1994), dall’altra nella ricerca di peculiari metodi e strumenti per pianificare e correttamente gesti-re e valutare l’intervento assistenziale infermieristico e per rilevare e appro-priatamente rispondere ai molteplici bisogni delle persone assistite nei diversi setting ospedalieri e territoriali. La ridefinita strutturazio-ne dei percorsi formativi di base e post base, oltre che la disponibilità a impegnarsi nell’innovazione organizzati-vo-assistenziale e a misurarsi con i bisogni derivanti dal mutato quadro demografico ed epidemiologico, hanno rimarcato in maniera sempre più evidente le potenzialità e il “nuovo” ruolo che veniva assumendo un infermiere sempre più lontano dalla esecutività aprioristica e dall’ausiliarie-tà professionale. Il confronto con i modelli organizzati-vo-assistenziali utilizzati negli altri pae-si (Inghilterra in primis) e la necessità di trovare nuove modalità di risposta all’invecchiamento della popolazione e all’aumento delle patologie cronico-degenerative hanno indotto diverse aziende sanitarie a sperimentare modelli organizzativi impostati sulla razionalità ed efficienza dei percorsi, attenti ai costi di sistema e coerenti con la diffusa aspettativa di un’assistenza personalizzata, efficace e appropriata; si sono sviluppate così diverse speri-mentazioni nell’ambito delle strutture di pronto soccorso e dell’emergenza, delle strutture residenziali, degli hospi-ces e dell’assistenza domiciliare. I progetti di riorganizzazione, l’innova-zione tecnologica e le sperimentazioni assistenziali, oltre che la necessità di garantire continuità assistenziale nelle diverse unità operative ospedaliere e tra l’ospedale e i diversi setting assi-stenziali territoriali, hanno preteso la ridefinizione delle competenze, il ridi-segno delle attività e la riformulazione delle responsabilità agite dai diversi professionisti sanitari impegnati nei processi di cura e assistenza. Ma tutto questo ha contemporanea-mente e inevitabilmente prodotto una forte turbolenza nelle relazioni tra i diversi operatori che dopo decenni di staticità hanno dovuto riposizionarsi e ridefinirsi su criteri e paradigmi pro-fessionali nuovi che, inevitabilmente, non potevano ulteriormente miscono-scere il radicamento di nuove compe-tenze nel “fare”, nel “decidere” e nel responsabilmente “rispondere”. Il riconoscimento e l’utilizzo formale di nuovi modelli di organizzazione del lavoro e la ridefinizione prag-matica delle figure professionali da coinvolgere (gli ospedali organizzati per intensità di cura e complessità assistenziale, le nursing home, i punti unici d’acceso, i percorsi per pazienti fragili, il “see&treat”, la definizione del fabbisogno di medici e infermieri nelle degenze in relazione al grado di complessità degli assistiti o nei bloc-chi operatori in relazione al grado di complessità degli interventi chirurgici e anestesiologici, gli ambulatori in-fermieristici, le unità di valutazione multi-professionale, il case manage-ment infermieristico, la presa in cari-co globale dell’assistito, la definizione dei piani personalizzati di assistenza domiciliare, le procedure richieste dal risk management, i percorsi di qualità, la definizione budgetaria di obiettivi da raggiungere e delle corre-late risorse, la valutazione degli esiti clinico-assistenziali…) hanno innesca-to il dibattito fra l’organizzazione e i professionisti e fra le diverse famiglie professionali. Un dibattito che però negli ultimi mesi, e soprat-tutto fra medici e infermieri, non pare connotarsi come metodo po-sitivo per la ricer-ca di nuovi equi-libri relazionali; ha assunto infatti toni che rischia-no di esasperare gli animi e allontana-re ancora di più le diverse posizioni senz’altro, invece, confrontabili. Credo si possa affermare che gli in-fermieri italiani, nella loro parte pre-valente, si sentano giuridicamente sereni, professionalmente impegnati e siano pienamente consapevoli del ri-levante e insostituibile ruolo che han-no assunto nella collettività nazionale e tra gli assistiti. Credo anche si possa affermare che gli infermieri italiani non vogliano fare inutili “guerre” oltretutto foriere di ingravescenti difficoltà per i cittadi-ni e per l’intero sistema sanitario, ma rendersi disponibili a un aperto con-fronto sui contenuti di un progetto assistenziale di sistema. Un progetto che definisca il “da farsi” e le diverse competenze e responsa-bilità da utilizzare nei diversi setting assistenziali ospedalieri e territoriali e che sia scevro da ideologie, oltre che lontano da schemi obsoleti e da sup-poste primazìe professionali e sociali. L’assistenza sanitaria non si struttura unicamente in un insieme di processi diagnostici e terapeutici (peraltro resi concreti in cospicua parte dall’infer-miere), ma anche nella rilevazione e nella risposta appropriata ai moltepli-ci bisogni che il paziente evidenzia o che l’infermiere autonomamente rile-va nell’esercizio della sua quotidiana professionalità.La questione “relazione professionale infermiere-medico” non si risolve “in punta giuridica”, ma con il confronto aperto e trasparente, il riconoscimen-to reciproco e la costruzione integrata e flessibile di nuovi perimetri profes-sionali. Non so quanto possa essere uti-le in questa fase storica rincorrere l’idea di poter dare una definizione sostenibile e non giuridicamente conflittuale di che cosa può essere effettuato da un operato-re sotto la respon-sabilità di altri (magari lontani) oppure di riuscire a definire pun-tualmente l’atto medico ovvero l’atto infermieri-stico senza cadere in rigide e inagibi-li strettoie professionali. Sono i singoli infermieri e i singoli me-dici che devono cambiare, crescere, convincersi, maturare e deporre le armi dello scontro per impegnare le proprie energie su obiettivi e processi assistenziali orientati ai cittadini e non a vetero rivendicazioni conseguenti a supposti torti, vecchie diatribe e inso-stenibili primazie professionali. Altri, gli esperti esterni alle due fami-glie professionali, possono essere di supporto nella definizione e struttura-zione di metodi e strumenti per faci-litare il confronto, ma non certo nella declinazione dei contenuti paradig-matici e disciplinari dell’infermieri-stica e della medicina, che rimangono appannaggio esclusivo di infermieri e medici. Infermieri e medici che amano la loro professione, vogliono davvero ren-derla “servizio al cittadino”; essi sono ben consapevoli che l’insita – e pro-babilmente fisiologica – conflittualità sottesa all’evolversi delle competenze e degli ambiti di esercizio professio-nale non può che essere superata con l’impegno che non rifugge il comples-so confronto dialettico, con l’onestà intellettuale e con il prendere atto e l’accettare che i migliori risultati ven-gono raggiunti con l’integrazione dei diversi saperi e attraverso il lavoro di squadra.
La differenza tra curare e prendersi cura«Quali sono i confini dell’atto me-dico? E fin dove può arrivare in questo senso (anche dal punto di vista penale della responsabilità nei confronti del paziente) l’impegno delle altre professioni, infermieri in testa? Occasione per rispondere a queste domande è stato un incontro promosso a Rimini dalla FnomCeO a metà maggio, sul rapporto tra me-dici e professioni sanitarie. Ma il punto di vista dei medici, riportato nell’analisi dell’avvocato Gianfran-co Iadecola (v. Il Sole 24 Ore Sanità n. 26/2010) soprattutto rispetto ai modelli sperimentali della Toscana see and treat nell’ambito del pronto soccorso e dell’Emilia Romagna fast and track surgery, non è piaciuto agli infermieri che sono direttamente coinvolti e responsabilizzati nelle due Regioni. Ad accendere la mic-cia della “bomba” sempre innesca-ta del rapporto medici-infermieri è stata la domanda che Iadecola si pone sulle sperimentazioni: sono in linea con quanto fin qui elabora-to dalla giurisprudenza in tema di responsabilità medica e sanitaria? Netta è la risposta degli avvocati che sono dalla parte del nursing (Luca Benci e Giannantonio Barbieri) , ri-portata in queste pagine: il medico si occupa della malattia, l’infermiere delle conse-guenze della malattia e della qualità di vita della persona. Nessun eserci-zio abusivo della professione quin-di, sostengono, ma solo il rispetto dei compiti affidati agli infermieri dalla legge 42/1999 prima e dalla 251/2000 poi, che hanno indicato gli ambiti di autonomia delle profes-sioni sanitarie».
Il sole 24 ore