Non esiste un dosimetro capace di quantificare la stanchezza né tanto meno un test che dia dei valori misurabili ed utilizzabili (tipo alcolemia o i narco-test). L’unico parametro sino ad ora identificato, ma solo nell’ambito sperimentale, è quello del dosaggio della melatonina che mostra importanti e repentine riduzioni se l’organismo, anche per periodi molto limitati (settimanali), subisca una deprivazione di sonno (poco, discontinuo od in condizioni ambientali sfavorevoli –luci, rumori etc -). Il calo della melatonina è dunque considerato dai ricercatori un’affidabile indice di stress, tanto che alcuni hanno ipotizzato un miglioramento delle performance dopo somministrazioni esogene di melatonina sino al riequilibrio dei valori ematici.
Introduzione Di Sergio Costantino, Cardiologo Ospedaliero Fondazione Policlinico IRCCS di Milano Carlo Palermo, Direttore dell’U.O.C. di Medicina Interna, Ospedale di Poggibonsi (SI)
Purtroppo il riposo minimo obbligatorio (di almeno 11 ore continuative tra un qualsiasi turno e quello successivo) previsto dalla normativa europea si è trasformato nel nostro paese, in poco tempo da “bene indisponibile” (tale che neppure per scelta personale vi si sarebbe potuto rinunziare) a oggetto di trattativa decentrata aziendale. Per questioni di natura economica, con le quali la crisi ha poco a che vedere, è stata decisa a tavolino e concordata tra le diverse forze politiche, una deregulation totale degli orari di lavoro del personale medico infermieristico. Poco importa se i maggiori esperti in materia giuridica del lavoro abbiano ritenuto le modifiche italiane alla Direttiva europea illegittime e da disapplicare dal giudice nazionale. Poco importa che la deroga sul riposo giornaliero abbia sollevato non pochi dubbi di anticostituzionalità. E soprattutto poco importa degli effetti nefasti che tale decisione ha sulla salute dei professionisti sanitari ma, come vedremo, anche su quella dei pazienti stessi.
( normativa europea.)
Ora su queste cavillosità si è inserita la Comunità Europea che, ha troncato gli indugi ed i sotterfugi di casa nostra chiedendo all’Italia le motivazioni del non rispetto (2013) della direttiva. Successivamente ha invitato il governo ad adeguarsi (non ritenendo valide le giustificazioni addotte). Finalmente quest’anno, persistendo l’inadempienza ha aperto una procedura di infrazione presso la Corte di Giustizia (per inciso siamo il paese europeo più sanzionato per il mancato rispetto delle Direttive comunitarie). Sono quindi accertati e “certificati” dalla Comunità europea i diritti d i medici e infermieri italiani alle 48 ore di lavoro medie settimanali ed al riposo minimo garantito di 11 ore ininterrotte ogni 24 Il lungo percorso di tutela iniziato nel 2005, contro scelte organizzative pessime e nocive (con turni di 19 20 ore sulle 24), sta andando a compimento. Quindi accertato che è stato violato un diritto è altresì accertato che tutte i referenti delle strutture pubbliche hanno commesso un illecito, così come è specificato in diverse sentenze della Corte di Giustizia, non applicando direttamente la Direttiva ed ancor peggio allo scopo di ottenerne un vantaggio.
Il Decreto Legislativo 66/2003 fornisce all’art. 1 la definizione del riposo adeguato: “Il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano la organizzazione del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute a breve o a lungo termine” . (dizione ripresa e rafforzata quindi dal CCNL)
In sintesi, ci si riferisce a due entità:
1. il causare lesioni (quindi danni) • a se stessi • ad altri lavoratori (dell’équipe) • a terzi (cioè i pazienti)
2. danneggiare la propria salute • a breve • a lungo termine (quindi anche con danni non immediatamente rilevabili e riconducibile esclusivamente ad una osservazione epidemiologica).
Analisi delle pubblicazioni scientifiche. Ma le indicazioni della Comunità Europea sono così arbitrarie o hanno un concreto substrato scientifico? Abbiamo passato al vaglio le più significative pubblicazioni in materia, tratte dai più prestigiosi giornali scientifici, raggruppandole ovviamente nei due filoni principali: danno alla salute di medici e infermieri e danno potenziale alla salute dei collaboratori e dei pazienti.
Iniziamo dall’analisi del rischio per collaboratori e pazienti.
In una review pubblicata sull’autorevole New England Journal of Medicine, Gaba e collaboratori hanno affermato che: “La deprivazione di sonno dovuta a turni lavorativi prolungati è il tallone di Achille della professione medica infermieristica . Il livello di presenza e di attività lavorativa del personale sanitario è di gran lunga superiore a quello che viene osservato sia nel settore dei trasporti sia nelle centrali nucleari. Molto ricca, ma crediamo poco nota, è la letteratura riguardante i danni riportati da medici e infermieri, di cui citiamo i riferimenti più significativi.
Per Czeisler e collaboratori, del dipartimento di medicina del sonno della Harward Medical School, i turni notturni prolungati sono associati ad un evidente e significativo aumento del rischio di procurarsi lesioni percutanee. (6) Brown, dell’Università del Michigan, ha posto in evidenza un incremento percentuale del 4% di rischio di ictus ischemico ogni 5 anni di lavoro a turni con turni notturni (7). Schernhammer e Laden dell’Università di Harvard sul Journal of the National Cancer Institute ci fanno scoprire come l’attività a turni con almeno tre turni notturni mensili per un periodo di 15 o più anni sia collegata ad una maggiore probabilità percentuale di sviluppare tumori del colon-retto del 35% rispetto ai lavoratori diurni. Sempre nella stessa pubblicazione si evidenzia il il drammatico calo della produzione di
melatonina a partire dalla seconda settimana di innaturale esposizione a stimoli luminosi notturni e correlano a ciò l’aumentato rischio (8).
Olson ed Ambrogetti in una review sul Medical Journal of Australia hanno accentrato la loro attenzione sulle modificazioni ormonali e metaboliche, dipendenti dalla alterazione del ritmo circadiano conseguente alla turnistica notturna, ed hanno rilevato un sensibile aumento del rischio di sviluppare diabete mellito, obesità e cardiopatia ischemica. L’arretrato di sonno accumulato in casi di turni prolungati, secondo gli stessi autori, necessita di un riposo di almeno 48 ore per essere recuperato. In particolare vengono definiti come pericolosi quei turni che comprendano oltre la notte anche il mattino successivo od il pomeriggio senza alcun adeguato riposo intermedio. La review prosegue citando lo studio Helsinki Heart Study in cui veniva descritto un incremento del rischio di sviluppare patologie cardiovascolari compreso tra il 40 ed il 50% rispetto ai lavoratori diurni (9). Questo dato è sovrapponibile sia a quello ottenuto dal Nurse’s Health Study statunitense, che indica nel 51% la maggiorazione del rischio dopo soli 6 anni di lavoro con turni notturni. L’analisi elaborata da Kawaki e pubblicata su Circulation rileva un rischio maggiore del 21% entro i 6 anni di attività anche notturna e del 51% quando sia superato questo limite (10). Zheng e collaboratori della Yale University School of Medicine hanno dimostrato in medici che lavorano in terapie intensive, sottoposti a turni di lavoro prolungati e a lavoro notturno, un incremento di IL6 e della PCR che sono considerati markers biologici di infiammazione vascolare correlati ad eventi ischemici cerebrali e cardiaci (11). Scheer del Dipartimento di Medicina del Sonno della Harvard Medical School ha posto in risalto la presenza di notevoli disturbi del sonno, con riduzione delle fasi REM, nei lavoratori a turni, con turni di notte, disturbi che tuttavia regredivano ritornando al lavoro diurno (12). Sempre associate ai disturbi, le mialgie talora anche molto importanti. In una review di Sleep sono riportati dati interessanti sui lavoratori coinvolti nei dipartimenti di emergenza, costretti spesso a dover prendere difficili decisioni terapeutiche con pazienti a rischio per la vita, relativi a disturbi della vita di relazione ed in specifico con i propri familiari sia per la “turnistica” in sé sia per una sorta di “deformazione professionale del pensiero” che sminuisce tutto ciò che non sia di “vitale importanza”. Sono sintomi caratteristici uno stato di affaticamento “cronico” comportante irritabilità, calo delle prestazioni e diminuita agilità mentale (16,17,18). La maggioranza degli studi evidenzia come, e qui il rimando specifico è al personale del comparto, spesso i lavoratori preferiscano settimane lavorative più brevi incrementando di conseguenza l’attività quotidiana sino a 12 e più ore. I test effettuati su questi stessi lavoratori rilevano, senza ombra di dubbio, che il “prezzo pagato” è assai alto ed è caratterizzato da un eccessivo affaticamento, specie nelle ore finali dei turni, e da un’attenzione notevolmente diminuita. La distribuzione statistica degli errori notturni ha un picco catastrofico nelle ore comprese tra le 4 e le 8 del mattino (14). Diversi studi mettono in risalto una probabilità circa 3 volte maggiore (rispetto ai lavoratori diurni) di sviluppare disturbi che appaiono meno gravi, ma sono sicuramente fastidiosi, quali diarrea, dolori addominali, epigastralgie ed eccessiva flatulenza. Tali fenomeni vengono messi in correlazione prevalentemente con l’inadeguata ed irregolare alimentazione dei soggetti che lavorino a turni (9). La Dottoressa Schernhammer sul Journal of the National Cancer Institute riporta i dati relativi a circa 80.000 lavoratrici osservate nel Nurses’ Health Study (15) Questi evidenziano un significativo incremento delle probabilità di sviluppare tumore al seno che appare proporzionale al periodo di “esposizione” ai turni di notte ( 1-15 anni, 16-29 anni, oltre i 30 anni) correlandolo alla perdita dell’azione oncostatica della melatonina (ridotta nei lavoratori a turni). Un recente dato che proviene dal sistema assicurativo danese ODC (Occupational Diseases Committee) pone in evidenza la rilevanza di studi che ritengono il turno di notte un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di tumori al seno.
Attualmente tali dati sono al vaglio degli esperti della IARC (International Agency for Research on Cancer)
Le indicazioni per la strutturazione degli orari di lavoro secondo criteri ergonomici del Prof. Giovanni Costa, esperto di fama internazionale dell’Università di Milano, prevedono:
• Ridurre il più possibile il lavoro notturno e adottare schemi di turnazione rapida al fine di limitare il numero di turni di notte consecutivi (max 2) ed interferire il meno possibile sui ritmi circadiani e sul sonno.
• Adottare la rotazione dei turni in “ritardo di fase” (Mattino/Pomeriggio/Notte), in quanto consente un più lungo riposo intermedio.
• Prevedere almeno 11 ore di riposo continuativo tra un turno di lavoro e l’altro onde consentire un maggior recupero della fatica e del deficit di sonno.
• Non iniziare troppo presto il turno al mattino in modo da limitare la perdita dell’ultima parte del sonno ricca di fase REM.
• Programmare il giorno di riposo preferibilmente dopo il turno di notte in modo da consentire un immediato recupero della fatica e del deficit di sonno.
• Inserire pause nel corso del turno, in modo da permettere tempi adeguati per i pasti ed eventuali brevi pisolini, rivelatisi molto utili nel compensare il deficit di sonno. (19)
Risultati e conclusioni Possiamo analizzare i risultati degli studi utilizzati frazionandoli nelle due componenti per poter avere una analisi più dettagliata. Il 100% degli studi sui danni al pz evidenziano sia un calo misurabile delle performance mediche infermieristiche sia l’evidenza di errori a breve termine dal turno mentre solo il 50% nota effetti somma a medio termine; il dato poi che nessuno studio citi l’identificazione di danni diretti a lungo termine è sicuramente imputabile al dato osservazionale utilizzato che fa propendere per una scotomizzazione dell’analisi sul lungo periodo per le molte variabili interferenti. Paradossalmente invece l’identificazione dei problemi relativi alla salute di medici e infermieri ma anche di tutti i lavoratori notturni, è meno precisa nel breve termine ma assai attenta al medio-lungo termine, probabilmente per la maggior evidenza clinica delle patologie riscontrate che a breve possono essere ancora asintomatiche o sfuggire ai controlli occasionali effettuati oppure ancora vengono considerate minori, quali ad esempio quelli gastrointestinali (9). Quindi solo il 27% degli studi identifica un calo delle performance o danni fisici a breve termine, ed il dato sembra correlarsi positivamente con i disturbi del sonno e della vita di relazione. (12, 16,17,18) Mentre sale clamorosamente al 90% a medio termine, ed in diversi studi vengono identificati dei gruppi statisticamente maggiori dopo il superamento di periodi soglia, come se vi fossero degli step ben precisi (7,8,9,10,15). I dati complessivi di tutti gli studi esaminati danno invece i seguenti riscontri positivi nel 46% per danni a breve in parallelo con il calo delle performance; il dato sale all’80% nel medio termine attestandosi poi sul
60% nel lungo termine con identificazione di serie patologie nella maggior parte ischemiche o sostitutive (7,8,9,10,15) Appare, quindi, appurata una correlazione tra lavoro notturno e patologie a breve ed a lungo termine, la cui unica terapia sembra essere una maggiore quantità di ore dedicate al riposo. Più studi hanno dato evidente correlazione a patologie “esposizione dipendenti” sia in frequenza che in quantità; da ciò la necessità di provvedere a studi osservazionali più serrati ed ad un registro del lavoro notturno e perché no, al pari dell’esposizione alle radiazioni, a valutare l’opportunità di periodi di riposo suppletivi frazionati nel corso dell’anno per compensare gli stress a cui i lavoratori stessi sono sottoposti. Appare altrettanto assodata un’alterazione delle capacità, anche professionali, durante “esposizione” a turni di lavoro prolungati specie se comprendenti la notte, con prevedibile incremento del rischio per i pazienti che vengano visitati in particolare durante le fasi finali di questi turni. Infatti è dimostrata da più parti la difficoltà di concentrazione e la netta riduzione della memoria di fissazione a breve termine al termine di questi turni. Gli errori correlati alla fatica sono caratteristicamente condizionati da una riduzione della capacità di giudizio soprattutto nell’identificare l’importanza di un qualsiasi problema insorgente. “In alcuni campi, quale in esempio specifico quello delle cure sanitarie, è impossibile eliminare i turni notturni. L’unica possibilità per ridurre l’impatto di tali errori, è quella di mantenere una adeguata dotazione organica, di tutte le componenti, tale da consentire un ridotto numero individuale di turni di notte. Nonostante queste indicazioni sempre più spesso si verifica negli ospedali un’organizzazione con turni estremamente faticosi e pericolosi e questo a causa della predominanza del fattore economico/amministrativo, tendente in ogni caso a “ridurre i costi” per problemi di bilancio e non considera le pericolose conseguenze delle scelte operate”. (1) Con questa logica sembrano agire spesso anche alcuni esperti nostrani di risk management: non appiattire il rischio clinico ma ridurne l’impatto a termini “statisticamente accettabili”, tentando un mix tra risparmio di costi fissi del personale ed ottimizzazione dei costi assicurativi e/o legali “Il dipendente deve esigere da parte della struttura in cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno non incidano negativamente sulla qualità e l’equità delle prestazioni nonché sul rispetto delle norme deontologiche. Il èersonale medico infermieristico deve altresì esigere che gli ambienti di lavoro siano decorosi e adeguatamente attrezzati nel rispetto dei requisiti previsti dalla normativa compresi quelli di sicurezza ambientale. La stessa normativa vigente sul lavoro usurante non appare congrua rispetto alla realtà delle indicazioni scientifiche emerse che propongono strette correlazioni tra “esposizioni” al lavoro notturno e sviluppo di patologie. La quantità oltre alla quale i turni si mostrano “patogeni” è di gran lunga inferiori a quella prevista ( e cioè 80 notti di lavoro all’ anno). Ci sarebbe quindi spazio per porre in discussione tali limiti arbitrari. Lo Stato aveva scelto di “giocarsi ai dadi” la salute dei suoi dipendenti e dei suoi cittadini in cambio di un presumibile risparmio economico. In realtà quale costo hanno dovuto pagare i cittadini e il personale per queste frettolose deroghe in termini di mortalità e morbilità, in termini di spesa sociale per le invalidità conseguenti? Una stima indiretta, per la sola mortalità, ci viene fornita da studi epidemiologici statunitensi che, su 100.000 decessi annuali attribuiti ad errori evitabili, stimano che circa il 30% (30.000) possano essere imputati alla stanchezza degli operatori. Questi dati lungi dal voler dimostrare delle verità scientifiche assolute vogliono comunque porre l’accento su una realtà che non può essere ignorata e che dovrebbe essere oggetto di una nostra maggiore attenzione, visto che la componente politica sembra essere refrattaria a simili correnti di “pensiero”.
Il quesito finale è: perché queste “vittime innocenti” dovranno “pagare” con la propria salute l’imperizia (almeno) di coloro che non hanno né saputo né voluto sperimentare quei modelli alternativi e possibili rispettosi della fisiologia umana previsti dalle norme europee? Adesso gli strumenti ci sono e non sono solo per adepti: facciamo applicare la Direttiva e facciamoci rispettare.
Bibliografia
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