Negli ultimi mesi diversi media hanno dato grande risalto a una presunta “cura brasiliana” capace di rigenerare il midollo spinale e restituire la mobilità a pazienti con lesioni croniche. Al centro di questa attenzione c’è la polilaminina, una proteina derivata dalla laminina placentare, studiata presso l’Università Federale di Rio de Janeiro e sviluppata dall’azienda farmaceutica Cristália. Ma cosa sappiamo davvero?
Cos’è la polilaminina?
La laminina è una proteina che favorisce la crescita e la stabilità delle cellule nervose. I ricercatori brasiliani hanno sviluppato una forma stabilizzata, detta polilaminina, che sembrerebbe stimolare la ricrescita delle fibre nervose danneggiate quando iniettata nel sito della lesione spinale.
Le evidenze scientifiche disponibili
Studi preclinici (animali): già nel 2010 uno studio su modelli murini mostrava che la polilaminina poteva promuovere la rigenerazione parziale del midollo spinale. Più recentemente, un piccolo studio veterinario su sei cani con lesioni croniche ha riportato miglioramenti motori, ma senza gruppo di controllo e con limiti metodologici.
Studi pilota sull’uomo: esiste un preprint del 2024 su pazienti con lesioni spinali acute che suggerisce la sicurezza del farmaco e segnali di efficacia, ma il campione era molto ridotto e senza disegno randomizzato. Un trial clinico registrato in Brasile è iniziato come studio randomizzato, ma è stato poi condotto in modalità a braccio singolo con soli 10 pazienti.
Assenza di trial di fase 2/3: al momento non ci sono pubblicazioni peer-reviewed che confermino in maniera robusta efficacia e sicurezza della polilaminina su larga scala.
Il ruolo delle autorità regolatorie
Cristália ha annunciato l’intenzione di estendere i trial clinici, ma l’ANVISA (l’AIFA brasiliana) ha chiesto maggiore prudenza e la raccolta di dati più solidi prima di autorizzare un uso più ampio.
Tra speranza e cautela
Le storie di pazienti che mostrano miglioramenti hanno comprensibilmente un grande impatto emotivo, ma la scienza richiede prove rigorose. Non è la prima volta che molecole promettenti nei modelli animali non riescono a confermare la loro efficacia nell’uomo.
